Artista:

Graziano Fabrizi

Tecnica:

Digital Art

Dimensioni:

30mq

Si consuma l’orrore. Un uomo allo stremo delle forze lotta con la sua vita affinché non vinca la morte. Tenta di non far spegnere il lume della speranza, per la sua famiglia, per i suoi fratelli, quelli partiti prima. Immerso tra le onde, queste come pinne di squali affamati, divorano precocemente il primogenito. Il mare se ne nutre, lo culla verso la morte, come nell’ultima danza di un corpo orfano della sua anima, ormai profanato. L’uomo, ancora padre, si racconta in due momenti opposti. Con un occhio piange rassegnato il figlio, con l’altro fissa il cielo nel suo punto più alto, grida, si sgola quasi a tirar fuori gli occhi dalle orbite. Si tiene in gola cercando di trattenere con sé gli ultimi respiri. Sospeso nell’attimo prima che la corrente lo tiri di nuovo giù, in balia di una speranza che stenta a mostrarsi, ma lui è vivo e lotta con le sue ultime forze, si erge dalla superficie dell’acqua, ancora una volta, forse l’ultima. E’ l’attimo che precede l’azione il momento ultimo del lasciarsi andare. Vinto.
E poi lei, donna, disperata, pentita. il suo lo sguardo si divide, la lettura delle scene intrappolate in un’unica iconografia, una sorta di “strabismo di coscienze”. L’occhio destro interroga il cielo, con una mano tra i capelli, le urla, atroci, quasi ad udirne lo strazio, il suono stridulo, un gesso alla lavagna, una forchetta tra i denti. Un suono ormai familiare al quale siamo atrocemente abituati. Sacra è madre, con rabbia mostra il corpo del figlio, il suo secondo appena passato a vita. Ucciso dalla terra, che non lo voleva, vittima delle scelte di quei grandi che volevano salvarlo da quegli altri complici, ma non importa. Hanno scelto per lui e per il suo non domani. Ora il mare lo piange e sembra proteggerlo portandolo con sé. Destino, tiranno.
L’occhio sinistro della donna interroga il fruitore, lo tira dentro il dramma, puntando il suo sguardo, prendendo di petto la sua coscienza, mentre una lacrima sembra scenderle in bocca quasi a voler mostrare il rammarico, il pentimento.
Lo strazio interroga se stesso, la madre sembra chiedere, perchè?.
La crudeltà nel destino segnato di un ultimo quadretto di famiglia.
Interpreti nell’opera di una scena di dolore, l’insieme come simbolo di storie tutte ugualmente diverse.
Soli davanti al proprio Dio, davanti alla propria vita che fa capolino alla morte.
Le tinte, piatte dei colori descrivono una realtà nuda, non lasciando spazio a distrazioni non permettendo vie d’uscita. il fruitore è complice perché testimone del tempo in cui vive per questo responsabile.
L’opera è piena di vuoti, risultando anch’essa dispersa nello stesso mare di ipocrisia e compianto, smarrita di principi e riferimenti è li come davanti al vuoto.
Immi nasce per creare affanno, per denunciare e fermare il tempo nel tempo stesso tra la vita e la morte. Per sentirsi abbandonati e inermi al destino.
Immi, come immigrati immi come “I’m” visto allo specchio, Io sono.
Protagonisti di una storia comune, di ruoli differenti in uno stesso mare, l’oggi in cui l’uomo è vittima di se stesso perso nel vuoto di un non senso:
Il suicidio dell’amore.