Testimoni

Massimiliano Dirodi – Docente

By 6 Marzo 2019 Marzo 16th, 2019 No Comments

Ognuno di noi è qualcuno nella propria storia della vita, non uno ma tanti insieme, contemporaneamente. Io, cosa sono? Sono un insegnante, un adulto che per lavoro cerca di trasferire sapere a giovani alunni. Sono un Capo scout, ancora un adulto che cerca di trasmettere valori a ragazzi adolescenti. Sono però prima di tutto un padre, un uomo a cui il Signore ha dato in dono la meraviglia di essere genitore, colui che grazie all’amore per e della sua donna, ha potuto collaborare nella generazione di nuove vite, germogli di esistenze che si rinnovano. Padre dunque, come quello che, mani al collo, disperato, vive la sua impotenza di fronte ad una sorte avversa che sta inghiottendo non solo lui, ma tutto ciò che ha di più caro, sua moglie e i suoi figli. Ecco dunque cosa mi colpisce per primo, come un pugno ben assestato nella pancia, quel padre che è sempre stato riferimento di forza e di protezione per i suoi figli, appare impotente, non riesce a fermare quei flutti in cui annaspa con difficoltà. Nello stesso tempo però riesce a stringere in mano una candela accesa, simbolo della speranza, una sorte di Giobbe che, pur nella prova più dura, cerca di non perdere la sua fede e la sua fiducia nell’essere umano che vive e che sogna allo stesso modo, ad ogni latitudine.
Questa famiglia che naufraga nei flutti di un mare non ospitale, è sicuramente un’immagine evocativa di un fenomeno che sta investendo la nostra società di questo decennio: la migrazione di popoli da luoghi diversi della Terra, in cui la vita è dura per miriadi di ragioni, guerre, persecuzioni, carestie, mancanza di servizi minimi ed essenziali, verso le nostre città in cerca di condizioni di vita migliori e con una prospettiva di un futuro più “umano”.
Sebbene un’immagine così forte scuota nel profondo la mia e le nostre coscienze, non possiamo fermarci solamente all’aspetto emozionale il quale ci porterebbe a ragionare solo “di pancia”, come si usa dire adesso e meno di cervello.
Io credo che, un padre o una madre che affrontano un viaggio così lungo e pericoloso, sono sicuramente spinti da una situazione, nella propria terra di origine, non sostenibile e più pericolosa del viaggio stesso. Non si parte dunque, se non spinti da un “istinto di sopravvivenza” e da una speranza (la candela accesa) di un mondo migliore; però è pur vero che anche il poter vivere nella propria terra è un diritto sacrosanto. Il Papa Emerito Benedetto XVI, nella giornata del migrante e del rifugiato del 2013, ci ricorda come diritto primario dell’uomo sia quello di poter vivere nella propria terra e di impegnarsi affinché si mantengano sotto controllo tutti quei fattori (come detto in precedenza, guerre, persecuzioni o altro) che spingono i popoli a partire. Molti vescovi, oltretutto, hanno messo in guardia dal pericolo di un impoverimento dei paesi africani che avrebbero invece bisogno di risorse umane per potersi risollevare.
Cosa possiamo fare per loro noi paesi occidentali? Accogliere e salvare vite umane e in difficoltà è un dovere primario di qualsiasi essere umano, nessuno può essere lasciato in pericolo di vita o alla deriva per giorni, questo è sacrosanto. Nello stesso tempo è evidente che uno Stato o meglio ancora l’Europa, debba controllare gli arrivi in modo da poter dare, da un lato la priorità a chi ha più bisogno di essere accolto, dall’altro permettere un’adeguata accoglienza da parte di chi dovrà accompagnare queste persone nel lento percorso di integrazione.
Accogliere queste persone che chiedono il nostro aiuto, significa mettere al primo posto la loro dignità di essere umani, metterli in condizione di integrarsi nella nostra società pur preservando la loro cultura di origine, promuovere un inserimento nel nostro tessuto socioeconomico in modo da favorire la loro emancipazione. Purtroppo, troppo spesso vediamo come molti di questi disperati finiscano nelle maglie della malavita locale finendo essi stessi per delinquere (spaccio, prostituzione) o sotto il giogo di “datori” di lavoro, se così possiamo definirli, che alimentano un becero caporalato, in cui migliaia di ragazzi lavorano duramente nei campi, ai limiti delle condizioni umane.
In secondo luogo, è necessario lavorare sull’istituzione e sul consolidamento di corridoi umanitari che permettano arrivi bypassando l’intervento degli scafisti, mettendo fine a questa tratta di carne umana, fatta da gente senza scrupoli che per pochi soldi, mette a repentaglio la vita di centinaia di persone stipandole fino all’inverosimile, su bagnarole natanti.
Questi interventi richiedono uno sforzo da parte delle istituzioni, da quelle locali fino a quelle sovranazionali. Non possiamo tirarci indietro, siamo chiamati a rispondere a questa sfida che la storia ci pone dinanzi, noi uomini del 21esimo secolo; la strada da compiere è lunga, ma anche la salita più ardua e impegnativa comincia con un primo passo. Anche noi, nel nostro piccolo, possiamo fare la differenza, anche con piccoli gesti, cominciamo evitando di cadere nella spira di “intolleranza” che serpeggia e che a volte sfocia in episodi di vero e proprio razzismo, diventiamo humus per il terreno della nostra società affinché diventi fertile e permetta l’attecchimento e germoglio del seme della speranza, chiudiamo le mani e ripariamo insieme quella fiamma della candela e impediamole di spegnersi. Facciamolo per chi non deve più “affogare”, facciamolo per noi.